Il Magliocco Dolce è il vitigno a bacca rossa più rappresentativo dell’Alta Calabria, quell’area che dalla valle del fiume Neto si estende fino ai confini della Basilicata e che pressappoco coincide con quella che un tempo, perlomeno fino all’unità d’Italia, era chiamata Calabria Citeriore.
Questa è lo zona di produzione più estesa della regione dove la viticoltura ha recuperato e valorizzato le colline su una fascia altimetrica che va dai cinquecento ai settecento metri. Non mancano esperienze viticole in alta montagna (soprattutto Sila e Pollino) dove si sta provando a coltivare la vita a quote rese sempre più interessante dai cambiamenti climatici in atto.
Quando intorno agli anni duemila si è sviluppato l’interesse per la viticoltura di quest’area, una delle zone più antiche di impianto e coltivazione della vite ma sempre rimasta ai margini del panorama vitivinicolo nazionale, il Magliocco Dolce è stato riconosciuto come suo vitigno rappresentativo. La DOC Terre di Cosenza, istituita nel 2011 ne ha decretato centralità e rappresentatività.
L’interesse si è concentrato su questo vitigno sia per l’ampia diffusione territoriale sia per le caratteristiche enologiche che si prestano a produzioni di qualità adatte all’invecchiamento, con profili sensoriali che si distinguono per finezza ed eleganza.
Per quanto il Magliocco Dolce sia ormai iscritto nel registro vitivinicolo nazionale non tutto è ancora chiaro e molto lavoro resta da fare per quanto riguarda la classificazione, l’identificazione varietale e la selezione dei cloni.
Magliocco (da una parola greca che significa probabilmente nodulo tenerissimo) è un nome collettivo che raggruppa una serie variegata di “popolazioni” o di “biotipi” sulla base di mutazioni che evolvendosi in ambienti diversi (l’Alta Calabria è molto estesa ed ecologicamente diversificata) hanno sviluppato differenze morfologiche e/o enologiche anche importanti. Esistono biotipi a grappolo serrato o spargolo e a grappolo più o meno grande. La situazione è resa ancor più complessa dall’omonimia con un altro vitigno storico della Calabria tipico del lametino, il Magliocco Canino, che ha però caratteristiche morfologiche e organolettiche diverse.
Ad aumentare la confusione il fatto che, a seconda delle zone di produzione, lo stesso vitigno sia chiamato con nomi diversi: sul Pollino Lacrima (ma quest’ultimo forse è un vitigno a parte), Guarnaccia nei territori dell’Alto Tirreno (Scalea e Verbicaro), nel Savuto Arvino, altrove Terravecchia, Merigallo, Maglioccuni, Marsigliana, Greco nero… La diversità dei nomi e la convinzione dei viticoltori di allevare vitigni diversi è dovuta a mutazioni della sequenza nucleotidica e a successive selezioni che hanno differenziato la morfologia del grappolo e originato un molteplicità di biotipi. Ciò non deve stupire perché anche vitigni di grande tradizione condividono questa caratteristica. Il Nebbiolo è tradizionalmente detto Picotener o Picotendro nel Nord Piemonte e in Valle d’Aosta e Chiavennasca in Valtellina, e nelle Langhe si distingue tra Lampia e Michet; lo stesso vale per il Sangiovese, conosciuto in zone diverse come Brunello o Sangiovese grosso, Prugnolo Gentile e Sangiovese Piccolo.
Al di là delle differenze territoriali pur molto evidenti e per le quali un Magliocco del Pollino ha un profilo sensoriale diverso da quello del cosentino o da quello della piana di Sibari, le caratteristiche comuni sono molte e tali da consentire espressioni enologiche molto caratterizzate, tipiche, identitarie.
Generalmente il grappolo è serrato (ma non sempre), gli acini sono medi e tondi , la buccia è spessa e ricoperta di pruina, il colore è blu violaceo tendente al nero a fine ciclo vegetativo. La maturazione è tardiva e l’epoca di vendemmia può spingersi a fine ottobre o anche ai primi di novembre.
I vini hanno buon corpo, più o meno pronunciato a seconda delle altimetrie e della natura dei terreni, mai però paragonabile a quello di un Calabrese (Nero D’Avola) o di vitigni internazionali come Merlot o Syrah. A volte, specie in quota, la struttura è leggera quasi a ricordare la consistenza di un pinot. Al naso le note dominanti sono quelle dei piccoli frutti con note speziate e sentori di incenso che si fanno sempre più evidenti con l’invecchiamento. Comune a tutti i biotipi è la ricchezza polifenolica sia nella componente antocianica (malvidina su tutte) sia in quella tannica la cui trama è sempre fitta e vivace, a volte scalpitante.
Dalla fine degli anni novanta del secolo scorso le attese intorno all’Alta Calabria e al Magliocco Dolce sono state alte e sono cresciute col tempo. A dispetto del cono d’ombra che la nasconde agli occhi più distratti, la Calabria Citeriore ha grandi potenzialità. La viticoltura è in gran parte di alta collina o addirittura di montagna, le vigne si dispongono su declivi e si avvantaggiano di escursioni termiche e ottima ventilazione. La vite si coltiva dal tempo degli Enotri e insieme all’olivo e al fico dà forma al paesaggio. È una Calabria inattesa per chi ha della regione l’idea sbrigativa di una terra assolata e arida che si allunga su bellissime coste deturpate dal cemento e dalle palazzine non finite. Tra castagni, querce e ulivi e più su tra faggeti e foreste di conifere, gli inverni sono freddi e le estati fresche e riposanti. I paesi conservano strutture antiche, tipicamente appenniniche che restituiscono l’idea arcaica e commossa di un’Italia ormai scomparsa o in via di congedo. Una geografia austera e silenziosa non priva di note malinconiche in cui è bello però immergersi.
Date le premesse i risultati hanno un po’ tradito le attese; il Magliocco e le Terre di Cosenza non hanno rappresentato, perlomeno non lo hanno ancora fatto, una novità “rumorosa” del panorama enologico nazionale come da più parti era atteso. I vini sono in genere apprezzati e suscitano interesse ma non tale da generare un cambio deciso di scenario per un mercato che resta ancora troppo regionalizzato e a volte asfittico. Anche i flussi turistici che sempre più si accompagnano al consumo di vino sono cresciuti ma rappresentano per le cantine una voce di entrata ancora marginale.
Le ragioni per cui ciò non è avvenuto sono tante e non tutte facilmente spiegabili. Probabilmente ha giocato un ruolo lo scarso appeal della Calabria in genere e il diffuso disinteresse che sempre l’accompagna. In un quadro difficile anche noi produttori abbiamo avuto responsabilità specifiche. Prima fra tutte quella di non aver puntato in maniera radicale e decisa sul Magliocco e sui tanti vitigni storici, sull’espressività e sulla corrispondenza con i luoghi di origine e di produzione, sul racconto di alto livello, sull’estetica (nel senso etimologico del termine). Ci siamo preoccupati molto dell’esecuzione tecnicamente corretta ma molto meno della originalità espressiva puntando sull’omologazione piuttosto che sulla differenza. La viticoltura è cresciuta ma i nuovi impianti sono stati fatti troppo spesso con vitigni internazionali o comunque con varietà alloctone. Le tecniche di vinificazione e di affinamento hanno migliorato la qualità media e astratta dei vini ma lo hanno fatto a costo di un’omologazione su modelli precostituiti, molto diffusi e perciò poco caratterizzati. L’aver reso un vino calabrese simile e confrontabile con vini di zone vitivinicole molto più blasonate è un successo tecnico ma, al tempo stesso, una sconfitta culturale e forse anche commerciale.
Induce però all’ottimismo il dinamismo di tante piccole aziende e di giovani produttrici e produttori che hanno deciso di puntare forte sull’Alta Calabria e sui suoi caratteri più irriducibili investendo capitali (pochi) ed energie (tante) sui vitigni storici, su pratiche di vinificazione artigianali e tradizionali, riducendo l’impatto di tecnologie e biotecnologie di trasformazione. Dal Pollino al cosentino si punta su un approccio più sentimentale e relazionale al vino nella consapevolezza che il “buono” non è un dato oggettivo, riposto nella composizione chimica, ma il risultato di interazioni complesse che molto hanno che fare con il le emozioni, il racconto e la storia dei luoghi e la concreta soggettività di chi beve.
È la storia dei VAC-Vignaioli dell’Alta Calabria e di tante altre piccole e meno piccole aziende che hanno deciso di puntare forte sulla Calabria e sulla materia viva del vino che da essa origina.
Non resta allora che seguirne l’onda.