Il vino non è una bevanda qualsiasi. Sicuramente non lo è per noi per noi che abitiamo il Mediterraneo e coltiviamo da millenni l’uva sui declivi affacciati sul mare o nelle are interne della fascia appenninica. Per la funzione che ha svolto nelle religioni pagane e monoteiste, per la costruzione del paesaggio e della memoria comune, per il suo doppio ruolo di alimento e di sostanza capace di modificare lo stato psichico e per la sua funzione economica il vino è un un unicum irripetibile. Nessuna bevanda, per quanto possa essere antica, ha la sua potenza e la sua forza evocativa.
Sta a noi che lo produciamo e lo beviamo cercare di non disperderne lo spirito, avvilendolo in rigidi protocolli enologici, in tecnicismi di scuola, in pratiche sempre più neutre di assaggio.
Ma che cos’è il vino? Esiste una sua definizione universale? O la sua essenza è strettamente legata alla geografia e alla storia che lo generano e non può che essere afferrata nei suoi luoghi di origine? Perché un vino del nuovo mondo, per quanto buono e ben fatto, non avrà mai il “valore” di un vino del Mediterraneo?
Il fatto è che il vino dalle nostre parti è qualcosa di più di una bevanda o di un alimento e non saprei trovare di meglio per provarne a spiegarne l’essenza delle parole di Salvatore Satta che ne racconta la nascita (la fermentazione) nel Giorno del Giudizio, il visionario romanzo sulla Sardegna interna e sulla sua “demoniaca tristezza”. Satta racconta del Cannonau, ossia del vino nel quale come altrove ebbe a dire “si sono infiltrate tutte le essenze della nostra terra, il mirto, il corbezzolo, il cisto, il lentischio”.
“La creazione del vino (la vinificazione come diceva con parole colta Don Sebastiano che l’aveva appresa dai cataloghi delle macchine agricole) rendeva la casa simile a un grande culla. Il vino non è come il grano, che quando è ammassato nel suo magazzino è una duna d’oro, e ha solo bisogno di essere difeso dai diabolici punteruoli; e neppure è come l’olio, che quando è uscito dalla notturna mola e poi dai fiscali pressati, dorme quietamente negli orci antichi quanto il mondo. Il grappolo straziato dai rulli si accumula, col suo succo innocente e col suo graspo in fondo al tino, sale lentamente verso il bordo, e là se ne sta spargendo il suo profumo, che è ancora il profumo di un fiore o di un frutto. Ma c’è, in quella massa iridata, un Dio nascosto, perché non passeranno molte ore, ed ecco un’orlatura violacea apparirà tutto lungo il bordo: allora la massa si solleverà come in un respiro, perderà la sua innocenza, e rivelerà in un sordo gorgoglio il fuoco che la divora. Un odore panico, come quello che esala la terra dopo le prime piogge, salirà dalle viscere profonde e sarà l’odore della casa in quei giorni, della corte, delle vie tutt’intorno, forse arriverà fino al cielo. Tutto avverrà di notte, perchè la vita e la morte sono figlie della notte, e i ragazzi dormiranno.. Ma non dormirà Don Sebastiano, non dormirà zio Poddanzu, che avrà preso dimora nella casa, perché sanno che anche le ore contano in questo misterioso nascimento. E sarà zio Poddanzu che, a un certo punto (lui solo lo sa), guarderà negli occhi Don Sebastiano, e vorrà dire che il momento è venuto.
Il mosto scaturisce dal tino, torbido e tiepido, come da una profonda ferita, quando zio Poddanzu toglie con mano esperta il tappo di sughero, che contiene tutto quel mare. Le botti addormentate sul cavalletto ricevono il liquido che le farà piene, mentre la massa iridata perde il suo colore, cala verso il fondo, si riduce a nulla. Ma le botti non sono una cosa inerme non sono gli orci: quando ricevono il mosto sanno che si mettono in seno una cosa viva, che si sentirà come in una prigione e premerà contro le doghe per schiantarle, si cercherà uno sbocco nel cocchiume, come la lava di un vulcano. Perciò le hanno corazzate di grossi cerchioni di ferro, e perciò zio Poddanzu compie, ora che tutto è finito un ultimo rito. Nel grande foro su in alto mette strani congegni di latta, che da un lato pescano nel mosto, dall’altro finiscono in una bacinella che si colma d’acqua. Tutto quel vulcano si riduce a un soffio che passa per un forellino e si dissolve nell’acqua. e l’acqua si schiude in cento piccole bolle, che si gonfiano e si rompono con alterno ritmo, che ha del singhiozzo e del canto. La cantina, le botti, il mosto possono ormai star soli. Ma nella notte, quando Don Sebastiano dorme, i ragazzi più piccoli scendono mezzi svestiti, entrano nel buio della cantina e rimangono delle ore ad ascoltare quel canto cjhe li accompagnerà forse per tutta la vita.
La nascita del vino si compirà quando l’ultima bolla sarà scoppiata, e zio Poddanzu, tolte le bacinelle che serviranno per la futura vendemmia sigillerà il cocchiume. Il puledro domato se ne starà silenzioso, in attesa di prendersi le sue vendette nei cervelli e nelle arterie e nei fegati dei nuoresi che faranno lunghe e severe file nelle bettole che vendono il vino di Don sebastiano quando non attingono direttamente alla cantina con le bottiglie e i bottiglioni, perché è il vino migliore di Nuoro[…]
La fine della vendemmia restituiva laccata alla sua solitudine. L’odore del mosto restava ancora a lungo per le scale e nell’atrio, ma era come se ciascuno riprendesse il suo posto, nell’incalzare dell’inverno, che a Nuoro arriva presto ed è spesso crudele.”
Salvatore Satta, Il giorno del Giudizio; Adelphi edizioni, 1979